Ripercorriamo la storia di una donna torinese alle prese con un buono fruttifero. Sembrava doversi accontentare di una rendita bassa, ed invece…
C’erano una volta i buoni fruttiferi, quelli che consentivano di avere delle entrate piuttosto elevate dopo 30 anni. Genitori e nonni erano soliti depositare del denaro alle Poste per i figli e nipoti appena venuti al mondo, in modo da garantirgli dei guadagni futuri.
I cambi dei tassi hanno però reso meno conveniente questa ipotesi, ragion per cui in molti hanno preferito optare per altri strumenti di risparmio. Ad ogni modo chi si è avvalso di questi prodotti negli anni ’90, oggi può riscuoterli ancora a cifre importanti. Vediamo a tal proposito un caso decisamente emblematico.
Una donna residente a Torino si è ritrovata suo malgrado al centro di una diatriba con Poste Italiane per un buono fruttifero del 1989 del valore originario di 5 milioni di lire. L’azienda al momento della riscossione, era intenzionata a corrispondere “solo” 28mila euro.
Questo perché già a fine anni ’80 era uscita la serie Q dei prodotti di investimento, che prevede dei tassi di rendimento più bassi rispetto a quelli antecedenti. Spesso però le Poste continuavano ad utilizzare i moduli della serie precedente, ovvero la P.
L’indicazione riportata per i nuovi tassi si riferiva però solo ai primi 20 anni di rendimento, ragion per cui la titolare del buono fruttifero pensava di ottenere alla scadenza dei 30 anni una cifra calcolata con dei tassi maggiorati per gli ultimi 10 anni.
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Solo grazie ad una sentenza del tribunale civile di Torino è riuscita ad ottenere 26 volte il valore originario del buono, per un totale complessivo di 65mila euro. In pratica Poste Italiane puntava a pagare solo i tassi più bassi, ma in pratica nel calcolo dovevano essere per forza ricompresi anche quelli vecchi e decisamente più redditizi.
Non si tratta di una vicenda sporadica. Nel 2020 sono stati circa 3mila i risparmiatori che hanno avviato dei ricorsi e nella maggior parte dei casi sono stati vinti.
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