Il mercato delle criptovalute rappresenta un mondo affascinante, ma nel contempo controverso e complesso. Un pianeta immenso con all’interno decine di altri micropianeti tutti ancora da scoprire.
Il futuro dell’economia mondiale vedrà davvero l’eliminazione delle banconote tradizionali e il passaggio, epocale, da qui a poco, da parte dell’intera umanità, alle ormai celebri criptovalute? Siamo certi che le monete digitali saranno accessibili a tutti, al nonno, alla casalinga, e non resteranno un mondo elitario per pochi esperti? Davvero la popolazione, intesa come massa, è pronta a tutto questo, oggi? Oppure lo sarà realmente molto presto? Soprattutto ci chiediamo quali saranno le criptovalute a dominare la scena. E quali invece saranno destinate a scomparire quasi subito.
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In questo momento, le relazioni degli esperti sono diametralmente opposte. C’è chi crede ancora nell’ascesa dei Bitcoin. Chi invece giudica che la tempesta si sia ormai placata, conferendo ad Ethereum lo scettro di futura regina delle cripto grazie agli smart contract.
Il mercato delle criptovalute e in particolare dei Bitcoin, secondo la maggior parte degli “economisti pro” è innegabilmente in costante crescita. Già si pensa a una tassazione sugli investimenti in valuta virtuale.
Ma come si pagano le tasse sulle criptovalute in Italia? Come si regoleranno il fisco e i governi in merito?
Gli esperti spiegano che, negli Stati Uniti, Bitcoin e affini sono considerati proprietà, al pari di una casa o di una collezione d’arte. Quindi dichiarati e tassati come tali. L’IRS, ovvero l’Agenzia delle Entrate americana, per ora raccoglie le dichiarazioni dei redditi dei possessori di Bitcoin in questo modo. Dal 2022 il regime fiscale delle criptovalute potrebbe cambiare nuovamente.
Le principali difficoltà consistono nel tracciare esattamente i guadagni da investimenti in crypto (il cosiddetto “capital gain”) come anche da pagamenti in valuta virtuale, e ovviamente nel fatto che molti contribuenti “dimenticano” di segnalarli al fisco.
Già il “libro verde” del Tesoro, pubblicato lo scorso maggio, ha introdotto requisiti più stringenti, imponendo alle aziende la segnalazione di tutte le transazioni in cryptovalute superiori ad un valore di 10 mila dollari. L’aliquota fiscale sulle plusvalenze potrebbe inoltre aumentare dal 23,8 al 43,4 per cento.
In Italia le tasse sui bitcoin sono ancora un mondo nebuloso e poco chiaro, in quanto il fisco non è ancora riuscito a irreggimentare questi investimenti.
Al momento il bitcoin e i suoi fratelli sono considerati valuta estera, il cui possesso e investimento è assimilato alle transazioni di borsa e tassato al 26 per cento.
Sono tassabili solo le transazioni superiori ad un valore di 51,6 mila euro, da dichiarare nel quadro RT del modello Redditi PF. Anche le transazioni inferiori andrebbero dichiarate nel quadro RW del modello unico, ma anche in questo caso le “dimenticanze” sono molte.
Anche il patrimonio in bitcoin & Co. custodito nei portafogli digitali andrebbe dichiarato, e tuttavia non è ancora chiaro come farlo.
Nel 2016 si stima che nel mondo i possessori di criptovalute fossero circa 5 milioni. Nel 2020 i numeri sono aumentati esponenzialmente. Sono circa 100 milioni gli utenti che posseggono o utilizzano criptovalute.
E si tratta di numeri che provengono soltanto dalle maggiori piattaforme di scambio al mondo, senza tener conto della DeFi che sta spopolando negli ultimi mesi.
Di conseguenza, complice l’ascesa di Bitcoin, la più celebre delle criptovalute, gli stati di tutto il mondo ad oggi cercano soluzioni legislative e fiscali che possano regolamentare il fenomeno, soprattutto per quanto riguarda l’utilizzo finanziario delle criptovalute, cioè la loro compravendita al fine di rivenderle a un prezzo più alto e ottenere una plusvalenza.
In Italia, invece, non esiste ancora una specifica regolamentazione finanziaria e fiscale delle criptovalute. Ciò non significa che non ci siano regole.
Anzi, alla luce delle risposte agli interpelli dell’Agenzia delle Entrate e di alcune sentenze in materia, è oggi chiaro che le criptovalute debbano rientrare nella dichiarazione dei redditi.
Quindi, sebbene tecnicamente le risposte agli interpelli e le sentenze non siano vincolanti nei confronti della generalità dei contribuenti, le stesse costituiscono pur sempre “raccomandazioni” con un forte valore orientativo.
A partire dal 2016, il case study dell’Agenzia delle Entrate è stato Bitcoin. Meglio di altri si presta a una assimilazione a una valuta estera, sebbene siano state sollevate plurime obiezioni in merito (le criptovalute non hanno corso legale, i wallet non sono conti correnti, eccetera).
Senza entrare nei dettagli tecnologici, è sufficiente evidenziare che esistono cryptoasset di natura assai differente tra loro, dovendosi innanzitutto distinguere tra quelli infungibili (NFT) e quelli fungibili (la maggior parte delle criptovalute scambiabili sui mercati).
Tra i token fungibili, poi, alcuni (come Bitcoin, Ether o Monero, tecnicamente “coin”) possono effettivamente fungere da “valuta” e quindi da mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi.
Altri sono equiparabili a veri e propri strumenti finanziari, come le azioni o le obbligazioni. Altri ancora attribuiscono meri diritti di utilizzazione di un servizio.
Come è evidente, non tutte le criptovalute possono (anche soltanto in teoria) essere assimilate a valute estere.
Tuttavia, ad oggi è ancora diffusa tale convinzione, con il risultato che, almeno per quanto riguarda le criptovalute fungibili (a esclusione, quindi, degli NFT sulla cui tassazione l’Agenzia delle Entrate non si è ancora espressa), il contribuente italiano sarà tenuto a inserirle nella propria dichiarazione dei redditi e, in alcuni casi, a pagarne le relative imposte.
A eccezione dei miner, dei trader professionisti e delle società che detengono criptovalute, per i quali vige un regime di tassazione diverso, il contribuente persona fisica residente in Italia, ogni anno, dovrà seguire queste regole.
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